Nei post precedenti – che puoi leggere qui sul blog – mi sono interrogata sul valore della voce. La mia e quella di ognuna di noi e sulla potenza che genera tirare fuori la propria voce.
Oggi ho voglia di riflettere sulle voci mancanti.
La diversità è un fatto.
Esiste, è tutto quanto ci rende persone uniche, tanto in quello che mostriamo quanto in ciò che non si vede.
Come dice Fabrizio Acanfora “con un approccio alle differenze che si allontani dalla visione che stigmatizza la diversità come condizione di inferiorità, deficitaria e migliorabile.
Io, ad esempio, sono una donna, moglie, figlia, sorella, professionista e tanto altro che non si vede o che scelgo di non mostrare a primo sguardo.
Oggi nelle aziende e nella società ci si interroga molto sull’inclusione delle diversità e sulla capacità di vivere e convivere con le differenze. Alle parole diversità e inclusione si può aggiungere la parola appartenenza.
Il desiderio di appartenere è proprio delle persone, si tratta di una sorta di bisogno primordiale.
E quel bisogno irresistibile di appartenere ha un lato leggero e luminoso. Quella necessità intima di sbloccare il sé autentico e la possibilità che questo venga accettato e sia ben gradito.
Sentirsi esclus* provoca, inconsciamente un senso di minaccia e di sentirci incapaci di adattamento.
Quindi l’appartenenza è un bisogno intrinseco nel mondo del lavoro è necessario vivere nella grazia di sentirsi bene e a proprio agio.
Cosa ha a che fare la diversità con le voci mancanti?
Ha a che fare con quanto a volte ci perdiamo alcune voci.
Non le ascoltiamo, non sappiamo dove sono, non ne leggiamo e non le percepiamo.
Classe, razza, educazione, sessualità, religione,.
Voci differenti, voci fuori dal mainstream.
Parole che si stanno prendendo uno spazio non concesso e a volte non ammesso.
Voci che stanno nell’intersezione, voci che incrociano le diversità e sfondano le consuetudini per guadagnare pezzi di universo.

Dove sono le voci mancanti?
Sono online, sono nelle autoproduzioni, sono nella street art.
Stanno nelle case editrici indipendenti e librerie senza brand, stanno nelle riviste e nei podcast.
Stanno su Instagram e stanno nelle piazze.
Gridano a gran voce, fino allo sfinimento e urlano il bisogno di essere ascoltate.
Ancora una volta, il digitale offre uno spazio.
È un luogo e una occasione tanto di dar voce alle proprie parole e sentimenti, tanto di ascolto e lettura di voci altre. I blog, i podcast, i social network possono essere canali e strumenti per dire cose che altrove restano inascoltate e che invece lì trovano un pubblico.
Come favorire la presa di parola?
Ci vuole auto consapevolezza, ci vuole un pizzico di coraggio a guardare oltre se stess*.
Si deve favorire l’appartenenza agli altri, essere intenzionali e rimanere curiosi.
Non serve per forza capire cosa hanno passato gli altri, basta solo rispettare chi sono e cercare la differenza.
E ricordare che se qualcuno ci accetta veramente in modo unico per quello che siamo quella gioia che si ottiene, quel sorriso che porta, è contagioso.
E la prossima volta correrai più rischi, alzerai la mano, la tua voce diventerà più forte e sarà ascoltata, e renderai qualcun altra più consapevole, generosa, autentica.
Io, la diversità, l’inclusione e le voci mancanti.
Io sento un forte bisogno di confliggere per far emergere.
Ho iniziato a sentire l’insorgere di un bisogno di sfondare la bolla, di guardare oltre, di smettere di affrancarmi nella zona di comfort sociale e relazionale. Ho bisogno di voci non previste, voci sopravviventi e sopravvissute.
Ci sono tre voci che in questi giorni mi accompagnano e che se avete voglia vi invito ad ascoltare @unavitadistendhal @oizaq @the.nuardian
Le due illustrazioni sono meravigliose e sono dell’illustratrice italo-srilankese @valeeeria e le trovate su Instagram all’interno del progetto narrativo @sullarazza